I mille volti del banchetto – prima parte

    Dalle antiche decorazioni parietali ai “trionfi” rinascimentali di cibo, ai capolavori della gastronomia moderna, il rapporto tra cibo ed arte è da sempre molto stretto. In questa messe di ricorrenze e citazioni un soggetto, senza dubbio, la fa da padrone: il banchetto.

    Affreschi egizi, etruschi, pompeiani, ritraggono commensali attorniati da lusso e bellezza, forme mutate del mitologico “banchetto degli dei”. Le cronache del ’500 narrano di fiabeschi “castelli di marzapane che racchiudono animali vivi” e tolemaiche architetture di cibo rivaleggianti in arditezza con le mirabilia petroniane. Nel 1600, a Firenze, per le nozze di Maria de’ Medici ed Enrico IV di Francia, la tavola, tra un boato di tuoni, spariva ad ogni cambio di portata, inghiottita dal pavimento o rapita dal soffitto, per ricomparire nuovamente imbandita secondo una scenografia il cui artefice era nientemeno che il Buontalenti, l’architetto dei Boboli.

    Feste paesane, delicati interni borghesi, cene surrealiste, capitaliste, elettorali, satiriche, grottesche costellano la storia della pittura.

    D’altronde è proprio un insospettabile a lasciarci questa lapidaria testimonianza della seduzione del convivio: “La specie di benessere che sembra meglio accordarsi con l’umanità è un buon pranzo in buona (e, se è possibile, anche varia) compagnia”. Il suo autore è Immanuel Kant, l’austero e appartato filosofo della “Ragion pura”.

    Lungo un percorso sempre in bilico tra fasto e scandalo, esibizione e invito alla morigeratezza, cerimoniosità e critica sociale, abbiamo scelto – per iniziare – tre autori.

    Il primo, non solo in ordine cronologico, è Paolo Veronese. Celeberrimi i suoi “banchetti”, tra tutti, Le nozze di Cana, che vide la luce nel 1562-63 per decorare il Refettorio di San Giorgio Maggiore a Venezia, dove da poco ha fatto ritorno una copia dell’originale custodito al Louvre dopo il “ratto” napoleonico. Il tema, tratto dal Vangelo di Giovanni, è calato nello sfarzo delle feste veneziane. Centinaia di figure animano la scena, compresi i ritratti di Tiziano, Tintoretto e dello stesso Veronese, al centro della scena musici e animali, sullo sfondo, una balconata cui conducono due scale simmetriche ospita figure informali in una prospettiva colonnata che si apre verso il cielo. L’eccessiva commistione tra sacro e profano, l’aggiornamento del soggetto ai costumi dell’epoca valsero al pittore, in occasione del completamento – nel 1573 – di un altro banchetto, la convocazione dinanzi al tribunale dell’Inquisizione. Col Banchetto in casa Levi, Veronese fu infatti accusato d’aver offeso la sacralità della soggetto originario – un’Ultima cena – inserendo nella composizione un buffone con pappagallo, segno di lussuria, servi e animali. L’autore, piuttosto che apporre modifiche al dipinto, gli attribuì perciò il nome col quale ci è giunto.

    Nato quando la vita del Veronese volgeva al termine, Louis de Caullery, col suo stile raffinato che coniuga la lezione dei mastri italiani e il realismo fiammingo, ci porta nel Gran Secolo. Il suo Banchetto in un interno di palazzo> è fastoso, prospettico, allegorico. Una vera summa del ’600. I numerosi ospiti siedono ad una tavola disposta ad angolo retto, mentre da un lato, secondo l’uso del tempo, un gruppo di musici allieta il desco. Il vino è offerto e presentato dai paggi in coppe di prezioso metallo, al centro della tela una giovane donna, sontuosamente vestita, regge un piatto decorativo con un dolce di zucchero di canna, prodotto molto apprezzato dai signori dell’epoca ed equiparato alle spezie per valore e ricercatezza.

    La maestosa raffigurazione non manca però di ammonimenti contro l’esibizione e gli eccessi del lusso, come d’uso per fornire un’implicita giustificazione morale a quel genere di pittura. Una più antica tradizione iconografica si nasconde quindi tra i personaggi del ricevimento. E’ il caso dell’austera figura vestita di nero, in piedi tra i cortigiani, assorbita nella contemplazione delle scene di battaglie, naufragi e altri cattivi presagi che decorano le pareti della sala.

    Un altro passo lungo un secolo e Jean-François de Troy, col Pranzo di ostriche, ci introduce nello sfarzo del XVIII secolo. Sempre nel segno della festosa opulenza del Veronese, l’opera porta l’osservatore nel cuore di Versailles, per i cui “petits appartements” è stata realizzata nel 1734. I molluschi, rappresentati alla maniera olandese, sono trasformati in una “golosità” francese e aprono le porte al genere delle “colazioni di caccia” inglesi. Nel Secolo dei Lumi, cibi sensuali come le ostriche e il tartufo si impongono come emblemi di raffinatezza, dopo un lungo bando religioso che vedeva in essi il simbolo della licenziosità carnale e dell’infedeltà femminile. Lo stesso de Troy fu protagonista, in prima persona, della fiera delle vanità della corte francese, per la quale organizzò splendide feste e ricevimenti: in occasione del Carnevale del 1748 e, nel 1751, per il marchese di Vandières, fratello di madame de Pompadour.

    Incombenza non certo lieve, che settant’anni prima risultò fatale al povero François Vatel, maggiordomo di tavola del Principe di Condé. Informato all’improvviso di dover ospitare per tre giorni l’intera corte presso il castello di Chantilly, inviò messi in ogni dove alla ricerca di materie prime. Un solo ragazzo fece ritorno con quattro miseri, piccoli pesci. Disperato, il cuoco, come Aiace, s’uccise gettandosi sulla propria spada.

    di Roberto Carretta, autore de La cucina delle fiabe, e Renato Viola

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