Tutte le sciagure umane, e le iniquità, e i precipizi, non discendono forse da un atto di ghiottoneria di seimila anni fa? La domanda di Voltaire non si esaurisce nel lampo ironico di una provocazione, l’atto del mangiare ha tanti significati, assolve molte funzioni oltre a quella meramente fisiologica. Comporta un aspetto “reale”, la soddisfazione di un bisogno, uno “istituzionale”, come ci insegna il banchetto i rapporti tra i commensali sono rapporti sociali, di potere, e uno “simbolico-culturale”, il cibo magico, sacro, proibito.
Il linguaggio accoglie tutti questi significati nelle loro moltrplici sfumature: la fame di sapere, l’appetito sessuale… E la pittura, poteva la pittura restare indifferente al fascino di questo atto necessario, seducente, imbarazzante? No di certo. Seguirne le tracce è un piccolo viaggio nella storia del costume, e non solo.
L’aspetto “reale” del nutrirsi implica innanzitutto confrontarsi con l’ospite fisso di tante mense: la fame. Il cremonese Vincenzo Campi, nei suoi animaleschi Mangiatori di ricotta, raffigura tre popolani che si avventano scompostamente su un piatto di candido formaggio con mestoli e cucchiai. La ricotta era ritenuta un alimento rustico, di scarso valore, adatto appunto al popolo. Siamo in pieno ’500 ma, al di là della fame atavica dei protagonisti, il candore dell’oggetto del loro desiderio, offerto da una procace e compiaciuta fanciulla in un piatto di peltro, rimanda anche al soddisfacimento di altri appetiti.
Il gusto è il titolo di due dipinti realizzati nel ’600 da Luca Giordano e Jusepe de Ribera. Napoletano il primo e spagnolo il secondo, presso il quale Giordano fu apprendista. Il mangiatore di Ribera è un oste intento a consumare un piatto di pesce, seppie e calamari, alza con la mano destra un calice di vino e mostra sul volto un quieto, intorpidito appagamento. Quello di Giordano invece, con la mano affondata nelle striscioline di seppia del suo desinare – ritenute erroneamente da alcuni un piatto di maccheroni – sembra stordito dal proprio atto, quasi immalinconito. Entrambi racchiudono, in misura diversa, un memento tutto barocco alla finitudine delle cose, un richiamo moraleggiante all’obbligo di non abbandonarsi stolidamente al soddisfacimento dei propri bisogni.
Di altro tono il vivido, immediato impatto del Mangiatore di fagioli di Annibale Carracci. Siamo nel 1583, nello sguardo da predatore sospettoso, nel profilo e nel naso acuminati dell’uomo c’è tutta la fame contadina e il desiderio di soddisfarla senza altro pensare. Un’analisi del quadro ci rivela molte cose del contesto. La sua voracità, nel tragitto del cucchiaio verso la bocca una parte del contenuto si perde, mentre la mano ghermisce un pezzo di pane sbocconcellato, il fatto che si tratti di un lavorante – o un artigiano – in viaggio che sosta presso un osteria, siede solo ad un tavolo apparecchiato con una tovaglia bianca, assente nelle case umili. I cibi esibiti sono semplici ma non di bassa qualità, il pane non è quello nero contadino ma nemmeno quello più bianco e raffinato destinato alle classi cittadine o comunque elevate, la caraffa di vino è capiente, sul tavolo attende una frittata… Tutto ci porta ad un’istantanea di vita rubata, in una taverna d’un piccolo paese di provincia, più di quattro secoli fa.
La fame bambina è un tema forte, di grande effetto, molto frequentato in certi secoli dall’arte e, purtroppo, facile alla retorica. Bartolomé Esteban Murillo fu interprete celebrato del genere, che sfocerà nella più generale moda europea del XVIII secolo di ritrarre soggetti fanciulli. Due quadri della Alte Pinakothek di Monaco segnano il mutare del tema lungo il ’600. I Bambini che mangiano uva e meloni (1650 ca), che ebbe grande e immediato successo, ritrae due piccoli mendicanti laceri, forse due monelli che hanno rubato la frutta ad un festino e ora ne godono compiaciuti il maltolto. Quindici anni dopo, i Bambini che mangiano da una casseruola sono figure già idealizzate, prive del naturalismo e della malinconia che permea la scena della tela precedente. Il colore è più vivo, la luce più calda, il tutto ha la parvenza di un gioco e il cesto di frutta col pane in primo piano indicano che il cibo non manca. Si è compiuto il passo verso l’allegra spensieratezza infantile del ’700.
Un cammeo a sé è costituito dal Bambino goloso di Picasso, del 1901, sospeso in un’atmosfera blu che anticipa l’omonimo periodo dell’artista. L’espressione assorta, mentre setaccia col cucchiaio il fondo d’una scodella, la tavola disadorna con un piccolo pezzo di pane, l’indeterminatezza dello sfondo intrecciano echi melanconici ed onirici.
Se il mangiare “simbolico-culturale” è rappresentato da un’opera eccezionale, il Cannibalismo autunnale di Salvador Dalí (1936), nel quale due esseri mostruosi si cibano delle rispettive carni a simbolo della Spagna lacerata dalla guerra civile – «Queste persone iberiche che si divorano tra loro in autunno…» -, sintesi potente dell’atto magico, ferino e rituale del nutrirsi è invece Lo stregone di Magritte. Il pittore belga, nel 1952, ritrae se stesso ad una tavola sobriamente imbandita (un pezzo di pane, un bicchiere di vino, una pietanza) officiare il rito ancestrale e quotidiano del pranzo. Il rigore formale del gesto, la fissità dello sguardo contrastano col fatto che l’autoritratto è munito di… quattro braccia con le quali, simultaneamente, mesce il vino, afferra il pane e taglia la pietanza.
di Roberto Carretta, autore de La cucina delle fiabe, e Renato Viola