Quanta vita racchiusa in una natura morta – seconda parte

    I dolci sono simbolo della festa, talvolta dell’ostentazione, del vizio – peccato di gola per eccellenza – ma sono, soprattutto, l’infanzia, il suo mondo fatto di odori, vetrine colorate, attese, piccoli furti. Per rappresentarlo abbiamo scelto tre autori, in ordine rigorosamente non cronologico: Giorgio de Chirico, Fernando Botero, e Jean-Baptiste Simeon Chardin.

    Nel 1915 Giorgio de Chirico, ventisettenne, viene destinato dal distretto militare alla città di Ferrara. L’incontro con le piazze, l’atmosfera, le botteghe estensi sarà determinante per la sua pittura. Come ricorda nella Memorie della mia vita: “L’aspetto di Ferrara, una delle più belle città d’Italia, mi aveva colpito; ma quello che mi colpì soprattutto e m’ispirò nel lato metafisico nel quale lavoravo allora, erano certi aspetti d’interni ferraresi, certe vetrine, certe botteghe, certe abitazioni, certi quartieri, come l’antico Ghetto, ove si trovavano dei dolci e dei biscotti dalle forme oltremodo metafisiche e strane”.

    Dopo aver già tanto viaggiato – Atene, Milano, Venezia, Parigi -, il pittore ritrova proprio nelle vie della città emiliana una sorta di intimità, una madelaine fanciullesco-metafisica. Nascono così tele come i “Saluti ad un amico lontano” e la “Natura morta evangelica I” del 1916, i diversi “Interni metafisici con biscotti”, e soprattutto, “Il pomeriggio soave”, sempre del 1916. Un’atmosfera consolante ed evocativa, dove anche una bevanda, dice, ha “un sapore biblico, un sapore da Vecchio Testamento”.

    Sempre fanciullesca – gioiosamente fanciullesca -, colorata e ridondante come le sue figure umane “oversize”, è la “Natura morta con gelato” di Fernando Botero, del 1990. La coppa di gelato arancione e la fetta di torta fucsia sbocconcellata, circondate da frutti e da una rotonda, paciosa zuppiera, sono un inno all’attrattiva dei “dolci da fiera”, che occhieggiano fosforescenti da banchetti improvvisati per gli sguardi golosi dei bambini. “Dolci proibiti” per eccellenza, in barba al caloricamente corretto, in un’epoca di privazioni monacali e feroci controlli sulle proprie rotondità nel nome di un’estetica -quella sì – molto patinata e superficiale. D’altronde, proprio l’artista colombiano è noto per la sua avversione alle mode – culturali e non -, come ebbe a dichiarare: “Credo che l’arte debba dare all’uomo momenti di felicità, un rifugio di esistenza straordinaria, parallela a quella quotidiana. Invece gli artisti oggi preferiscono lo shock e credono che basti provocare scandalo. La povertà dell’arte contemporanea è terribile, ma nessuno ha il coraggio di dire che il re è nudo”.

    Infine, viaggiando all’indietro nel tempo, abbiamo scelto le seduzioni della delicata poesia perfezionista di Jean-Baptiste Simeon Chardin. Allievo di Van Loo, erede della scuola fiamminga di natura morta, divenne dapprima famoso, nei primi decenni del ’700, per aver dipinto l’insegna della bottega d’un chirurgo nel quartiere parigino di Saint-Germain. Vi aveva raffigurato, col suo minuzioso realismo, le conseguenze di un duello…

    Le sue mense – corredate di utensili in legno, rame, vetro – sono un armonico impasto di tinte cremose e lucenti, attorniate da morbide luci diffuse e accese da riflessi sottili.

    Il dipinto “The Butler’s Table”, del 1756, col dolce morbidamente adagiato in primo piano, quasi appena svelato come un nudo classico, sembra una visione rubata attraverso la porta socchiusa da un fanciullo che spia, prima d’andare a dormire, le delizie che lo attendono il giorno della festa.

    Se vi siete persi la prima parte potete leggerla cliccando qui

    di Roberto Carretta e Renato Viola

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