tavole d'autore - storie d'arte e di cucina
Sua maestà il vino
Secondo la tradizione, il brindisi è stato inventato per accontentare, col tinnire dei bicchieri, l’unico dei cinque sensi non appagato dal vino, l’udito. Gli altri, compresi la vista, catturata dai suoi riflessi, e il tatto, che manipola con sapienza il bicchiere, non sfuggono al suo incanto. Il vino soggetto dell’arte per eccellenza dunque. Infatti è celebrato dalla pittura come nessun altro protagonista della tavola, a cominciare dalle origini e da una “patriarcale” sbornia, quella di Noè. Nel libro della Genesi, si racconta che, finito il diluvio, divenuto agricoltore e piantata una vigna, Noè fu il primo a sperimentare le conseguenze di un’abbondante bevuta.
A Firenze, nel Chiostro Verde di Santa Maria Novella, l’episodio del Sacrificio ed ebbrezza di Noè (1430 circa) è ricordato da un affresco di Paolo Uccello. Il patriarca, addormentatosi nudo nella vigna, fu visto dal figlio Cam che avvisò i fratelli, i quali, per non mancare di rispetto al padre, procedettero a ritroso verso di lui con i mantelli in spalla fino a coprirlo.
Prima tra le tante valenze del vino, l’ebbrezza mostra quindi l’uomo nella nudità della sua natura, una nudità imbarazzante, macchiata dal peccato. Giovanni Bellini, in una tela di poco posteriore (1515 ca.) esposta al museo di Besançon, esibisce un Noè scomposto, patrono dei bottai e degli ubriachi, popolare memento dei ridicoli effetti del bere.
Il dono dionisiaco, occasione di perdizione nonché simbolo di spiritualità, sembra concentrare la sua originale, potente ambiguità nel calice offerto dal Bacco (1596-7) caravaggesco degli Uffizi che, androgino e ieratico, scardina ogni luogo comune della pittura mitologica.
Il vino è innanzitutto mezzo di seduzione, colto in ogni suo aspetto dalla pittura. “Bacco protegge gli amanti; attizza le fiamme di cui è infiammato egli stesso…”, questo passo dall’Arte di amare di Ovidio è un commento perfetto per la scena di taverna descritta ne La mezzana di Jan Vermeer (1656), dove l’esplicito senso della scena passa addirittura in secondo piano rispetto al magistrale cromatismo e alla raffinata testura del tappeto orientale. Lo stesso tema, sospeso in un soffuso interno da un uso mirabile della luce, troviamo nella Fanciulla con la coppa di vino (1659), ancora di Vermeer.
Filtro e lieto simbolo d’amore è la bevanda immortalata in Rembrandt e Saskia nella parabola del Figliol prodigo (1635), quadro che sintetizza il periodo di vita più felice del pittore, tra il 1632 e il 1642, all’apice della fama e del successo.
Altro lavoro contemporaneo d’un maestro della luce di interni, è invece Il baro con l’asso di quadri di Georges de la Tour. Ora al Louvre, riscoperto solo nel 1926, ritrae un ingenuo giovane attorniato dalle tre tentazioni “caravaggesche” per eccellenza: il vino, il gioco e la lussuria, intente a un muto dialogo fatto di sguardi.
Giocosi e lievi sono invece gli innamorati del Doppio ritratto con bicchiere di vino (1917-18) di Marc Chagall, uno in spalla all’altro, sembrano una piccola, cromatica scala verso il cielo, quasi un inno alla felice instabilità dell’ebbrezza amorosa.
Se il lato oscuro della perdita di sé è esemplificato dal Giorno dopo (1894-95) di Edvard Munch, dove il male di vivere resta quale unico compagno della donna riversa sul letto, preferiamo chiudere questa breve rassegna col viso serafico del Dom Pérignon assaggia il vino prima della pressatura (1888) di José Frappa, in cui il vecchio benedettino – al quale secondo la “vulgata” dobbiamo lo champagne – ormai cieco, assaggia “religiosamente” l’uva attorniato dai confratelli.
di Roberto Carretta e Renato Viola