Il caffè

    “Nero come il diavolo. Caldo come l’inferno. Puro come un angelo…”, così lo descrive Talleyrand, a detta del quale “riattiva la circolazione e non intorbida la mente”; per Napoleone è un “liquore intellettuale”; nell’Encyclopédie, manifesto dell’Illuminismo, si apprende che ha il potere di “rallegrare la mente, renderla più pronta al lavoro, svagarla e dissiparne i dispiaceri”. Pietro Verri e Cesare Beccaria, nel 1764, chiamarono “Il Caffè” la rivista filosofico-letteraria destinata a scuotere i lombardi dal torpore delle tradizioni e dei pregiudizi, caffè come la bevanda che “rischiara lo spirito e riconforta l’anima”.

    Il nero elisir che rapidamente conquistò l’Europa vi giunse attraverso la Turchia nel XVII secolo, proveniente dalla regione etiopica del Kaffa. L’ambasciatore di Maometto IV, nella Parigi dell’epoca, la offriva all’aristocrazia francese in tazze stupendamente decorate. A intuirne – e sfruttarne – le potenzialità commerciali fu però un nobile siciliano di nome Procopio. Ribattezzatosi “Procope”, aprì, nei pressi della Comédie Française, una bottega in cui serviva l’esotico e prezioso nettare. Ebbe grande e immediato successo, successo giunto fino a noi senza soluzione di continuità. Un anonimo veneziano del ’700 ci ha lasciato l’immagine di un locale analogo ne La bottega del caffè, ora al Museo Correr.

    Il primo quadro a ritrarre una tazzina di caffè è forse il capolavoro di Francisco de Zubarán Piatto di cedri, cesto di arance e tazza con rosa del 1633 (Los Angeles, Norton Simon Foundation). Da allora il caffè compare in innumerevoli tele che ne documentano la diffusione sociale: con intento satirico, come nella quarta stazione del ciclo Matrimonio alla moda, “The Toilet”, dell’inglese William Hogart (1743-5, Londra, National Gallery), o autocelebrativo, come nel ritratto, ancora settecentesco, della Famiglia Martelli, di Giovan Battista Benigni (Firenze, Palazzo Martelli).

    Zubaran

    Matrimonio alla moda

    Sempre del secolo dei Lumi (1752) è il raffinato interno di Pietro Longhi La lezione di geografia (Venezia, Fondazione Querini Stampalia), in cui la gentildonna, per affrontare le fatiche dello studio, si avvale dell’ausilio del caffè offerto da due domestiche, una recante un vassoio con tre tazzine “turche”, l’altra una caffettiera d’argento.

    Lezione di geografia

    Anche sullo sfondo della Colazione nello studio di Edouard Manet (1868, Monaco, Neue Staatsgalerie) una domestica reca una caffettiera bollente, mentre sulla tavola ancora apparecchiata si scorge un’elegante tazzina in porcellana bianca profilata d’oro; discretamente, un cameriere attende invece en plein air, impugnando il bricco del caffè, alle spalle della coppia colta, sempre da Manet, Chez Père Lathuille (1879, Tournai, Musée des Beaux-Arts).

    Pierre Auguste Renoir e Federico Zandomeneghi immortalano con tocco leggero e mondano il caffè ottocentesco ne La fine della colazione (1879, Francoforte, Städel Museum) e Al caffè (1884, Mantova, Museo Civico). Immagini con tagli particolari, come istantanee, tessere di un più ampio mosaico sociale, di quella brulicante umanità urbana che affascinò gli impressionisti.

    Il ’900 potrebbe essere racchiuso nell’arco teso fra l’affocato, esotico altrove del Café arabe di Henri Matisse (1913, Hermitage, San Pietroburgo) e le desolate, cinematografiche solitudini di Edward Hopper: la donna che indugia con lo sguardo perso in una tazzina, tra esistenzialismo e hard boiled, di Automat (1927, Des Moines, Art Center) e i Nottambuli (1942, Chicago, The Art Institute), sospesi nella notte in una bolla di luce artificiale.

    Caffè arabe

    Automat

    di Roberto Carretta e Renato Viola

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