tavole d'autore - storie d'arte e di cucina
Cibo e arte. I luoghi del cibo (2ª parte)
La Rivoluzione francese è stata anche una rivoluzione gastronomica. Nelle città, i cuochi delle famiglie aristocratiche, rimasti senza lavoro, aprirono locali pubblici che si differenziavano dalle antiche taverne per decoro e tipo di offerta. Brillat Savarin li definì luoghi “vantaggiosi per i cittadini e necessari all’evoluzione della gastronomia”… nonché della pittura, il ristorante divenne infatti scenario di molti dipinti ottocenteschi.
Van Gogh, a Parigi, subì il fascino degli impressionisti, ma reinterpretò i loro temi urbani in modo estremamente personale. Ne è un primo esempio l’Interno di un ristorante (Otterlo, Rijksmuseum Kröller-Müller), dell’estate 1887. Ritrae un locale della ricca borghesia, il cui simbolo è il cappello a cilindro appeso all’attaccapanni, unico segno dell’altolocata clientela, essendo la sala completamente vuota, in attesa, le tavole apparecchiate con i bicchieri di vino rovesciati e gli eleganti vasi di fiori ad impreziosirle. Se era già del tutto insolito rappresentare un locale deserto, l’artista olandese vi impresse ulteriormente i segni della propria modernità con la linea obliqua della fila di tavoli sullo sfondo, col “taglio” di quello in basso a sinistra e con la lampada che appare come sospesa nel vuoto. Ultima impronta, il dipinto appeso sopra il tavolo centrale è una citazione del suo “Parco ad Asnières”, ora a New Haven.
Stesso titolo e – forse – stesso anno reca un’altra tela di Van Gogh (1887-8, Collezione privata), ma le differenze dalla prima sono determinanti. Il soggetto non è più un raffinato ristorante, deserto e silenzioso prima che sopraggiungano i clienti, ma un’allegra trattoria popolare dove i clienti siedono l’uno accanto all’altro in lunghe tavolate, senza nemmeno levarsi il cappello. La visuale da cui è colto, però, fa pensare all’artista rincantucciato in un angolo, separato dagli altri avventori da barriere di tavoli vuoti. In questo, ancor più che negli altri elementi descritti, è racchiusa la singolare, tormentata cifra esistenziale di Van Gogh.
D’altronde, un locale è per eccellenza luogo di incontro tra pubblico e privato ma, anche, scenario perfetto per simboleggiare la solitudine dell’individuo nella società.
Tables for Ladies, di Edward Hopper (1930, Moma, New York) propone un altro interno, al confine tra pubblico e privato, convivialità possibile e solitudine. Lo sguardo, dalla strada, oltrepassa il menù, la composizione di cibi esposti in vetrina e la cameriera intenta a disporli, per cogliere l’istantanea di una sola coppia perduta tra specchi e boiserie e della cassiera concentrata nel suo lavoro. Il titolo del quadro ha un preciso riferimento sociale, una recente innovazione dei costumi che portava i gestori di locali a precisare la disponibilità di “tavoli per signore”. Non solo infatti, nel contesto urbano, le donne svolgevano professioni al di fuori delle mura domestiche – come la cassiera e la cameriera – ma era loro possibile frequentare bar e ristoranti prive di accompagnatore senza che ciò apparisse sconveniente o, addirittura, che venissero scambiate per prostitute in cerca di clienti.
Un’ultima tela, molto celebre, ci trasporta invece in un contesto del tutto diverso, nel quale convivialità e spirito di gruppo sono humus dell’intera scena. La locanda di Mère Anthony di Pierre-Auguste Renoir (1866, Nationalmuseum, Stoccolma) è un frammento, una piccola icona di storia sociale dell’arte. L’ambiente raffigurato è la stanza principale della locanda in cui soggiornava Renoir a Marlotte, ai margini della foresta di Fontainebleau. I disegni che compaiono sullo sfondo erano effettivamente dipinti sul muro da alcuni clienti abituali; lo stesso Renoir disegnò, in un angolo del muro, il ritratto dello scrittore Murger. Nel quadro sono rappresentati: Nana, la figlia della locandiera (che appare anch’essa sul fondo, di spalle e con il fazzoletto), Monet, che si prepara una sigaretta, Sisley, con un grande cappello, che legge l’Evénement – il quotidiano di cui Zola era redattore – e Totò, il barboncino bianco in primo piano.
di Roberto Carretta e Renato Viola