Per una piccola storia dell’alimentazione. Puntata 3

“Cenai con un pezzetto di focaccia,

ma bevvi avidamente un’anfora di vino,

ora tocco con dolcezza le corde dell’amata cetra

e canto canzoni d’amore alla mia tenera fanciulla”

Anacreonte

Il pane di frumento o di orzo, sovente cosparso di semi di papavero, di sesamo o di cumino, e le focacce guarnite di olive o di uva passa erano l’alimento base degli antichi greci. Poco o nulla lievitato e un po’ secco, il pane fungeva sovente anche da “piatto”, su cui posare i pesci, la carne e le verdure.

Il vino greco andava famoso. Aveva un sapore e un aroma di resina, perché le anfore venivano sigillate con resina di pino. A volte vi si mescolavano spezie e quasi sempre il miele per addolcirlo. Era di gradazione alcolica molto alta, dal momento che proveniva da vendemmie tardive, e solitamente lo si allungava con l’acqua. Puro, era considerato invece alla stregua di un medicinale. In estate, quando si aveva bisogno di dissetarsi frequentemente per via del clima molto caldo e secco, era sostituito dall’idromele o anche soltanto da acqua fresca di pozzo.

I greci erano un popolo di contadini e di marinai, di pastori e di pescatori. Grano, orzo, vite, olivo, fichi, formaggi di pecora e di capra fornivano perciò i capisaldi dell’alimentazione. Inoltre i greci raccoglievano e consumavano le verdure che crescevano spontanee, come la lattuga e la cicoria, gli asparagi e gli spinaci. Aglio e menta erano utilizzati in abbondanza poiché li si riteneva dotati anche di virtù medicamentose.

Comuni erano le zuppe di lenticchie e di ceci. I ceci, come le fave, i fagioli dell’occhio, i cavoli e i lupini erano considerati cibi poveri e piuttosto rozzi, poco amati perciò dai palati più raffinati. Cibi poveri erano anche quelli “da strada” come le acciughe, che si mangiavano crude e si acquistavano ai banchetti di piccoli rivenduglioli metéci (ossia stranieri) ed ex schiavi. I cittadini greci infatti disprezzavano il commercio al minuto. Le acciughe più saporite e rinomate erano quelle del Falero, l’antico porto di Atene.

Immancabili sulla mensa greca erano le olive, che si mangiavano sia fresche sia conservate in salamoia, e condite in tal caso con finocchio selvatico, e i fichi freschi o secchi.

I pasti quotidiani erano tre, ma molto frugali: una colazione con qualche frutto e formaggio fresco, un pranzo per il quale si preparavano zuppe di legumi o delle specie di “polentine” piuttosto lente, di farro e di orzo, accompagnate da verdure condite con olio e sale, e una cena spesso a base di pesce. Oltre che nell’alimentazione l’olio era usato in medicina, e per la pulizia e la bellezza del corpo. La sua produzione era così abbondante che le eccedenze erano oggetto di esportazione. Olivo, vite e grano costituivano la “sacra triade” mediterranea.

Nelle occasioni del banchetto la tavola si presentava invece ricchissima di cibi. Ma il banchetto era un momento rituale della massima importanza nella vita comunitaria dei greci, che tenevano in grandissimo onore le leggi dell’ospitalità e della convivialità. Era riservato agli uomini e si prolungava dal tramonto a notte fonda con molta allegria tra bevute e canti conviviali, in compagnia di danzatrici e di etére (in greco “compagne”), che erano schiave belle e colte, pagate per intrattenere i commensali.

Giunti a casa dell’anfitrione, gli invitati si toglievano i sandali impolverati e si facevano lavare i piedi dagli schiavi, poi, dopo essersi ornati il capo di ghirlande di fiori, si sdraiavano a due a due sugli appositi letti, detti klinai, appoggiando il braccio sinistro su un cuscino.

Le vivande erano disposte su piccole tavole (tràpezai) , collocate davanti ai letti. I cibi venivano offerti già tagliati e portati alla bocca con la mano, poiché non esistevano posate. Le dita venivano pulite con pezzetti di pane, che venivano gettati ai cani in attesa sotto la tavola.

Il cuoco spesso veniva affittato per l’occasione e si recava con le pentole e gli altri utensili necessari nelle case private in cui aveva luogo il festino.

Questo si svolgeva in due tempi: quello del banchetto o prime mense, in cui ancora non si beveva vino, e quello del simposio o seconde mense, in cui facevano la loro comparsa il vino in quantità e i cibi migliori. Appositi coppieri attingevano il vino da un ampio vaso, detto cratere, con il kyatos, che era una specie di mestolo, e lo versavano nelle anfore. Di qui passava nelle singole tazze a due manici, che fungevano da coppe.

Oltre al pesce, servito in appositi piatti atti a raccogliere il condimento, ai molluschi e ai frutti di mare, si offrivano le carni più apprezzate, che non erano tanto quelle bovine o di maiale (quest’ultime le meno costose) quanto quelle di agnello, di capretto, di cervo, di lepre, di pernice, cotte allo spiedo o stufate. Le carni e le verdure alla griglia o sulla brace venivano avvolte in foglie di fico, i pesci oltre che stufati o grigliati venivano fritti.

L’uso della carne si diffuse nei simposi solo in epoca classica, perché in origine essa era riservata ai sacrifici che venivano offerti agli dei e consumata pertanto, una volta arrostita, solo in circostanze religiose.

La cena terminava con dolci di farina e miele, cui seguivano molte varietà di frutti: pere, mele, uva, fichi, melagrane, ciliegie ,fragole, mandorle, noci, uva passa di Corinto, che chiudevano il simposio.

di Elisabetta Chicco Vitzizzai

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