Ricette al girasole

    Secondo la mitologia classica la giovane Clizia, furibonda per il tradimento del Sole, suo amante, uccise la rivale Leucòtoe e la seppellì. Il Sole, addolorato e furente, non volle più vederla. Da allora la ninfa, incapace di rassegnarsi, cominciò a deperire restando notte e giorno seduta per terra senza curarsi di sé. Per nove giorni si nutrì soltanto di rugiada e di lacrime: non faceva altro che fissare il volto del dio che passava nell’alto dei cieli, seguendone il percorso con occhi innamorati e addolorati. Così ci raccontano Ovidio (Met. IV 167-270) e Igino (Fabulae, 14,20), che aggiungono che il dio poi, impietositosi, la trasformò in un fiore che fissa tutto il giorno il Sole. Questo è un fiore di modesta evidenza, battezzato da Linneo Heliotropium europaeum, di colore bianco – azzurro, ma anche con fiori viola, violetti o azzurro-violetti. E a questo fiore ben si adatta quanto dice Ovidio:

    Membra ferunt haesisse solo, partemque coloris

    luridus exsangues pallor convertit in herbas;

    est in parte rubor, violaeque simillimus ora

    flos tegit. Illa suum, quamvis radice tenetur,

    vertitur ad Solem mutataque servat amore (1).

    (Meth., IV, 266-270)

    Niente a che fare con il luminoso, solare e giallo girasole, a cui oggi riferiamo abitualmente la mitologica Clizia. Il girasole, infatti, era del tutto sconosciuto nel mondo classico, come lo era ancora al Poliziano che, riprendendo i versi di Ovidio, nelle Stanze(79) dice:

    in bianca veste con purpureo lembo

    si gira Clizia palidetta al sole.

    Anche per lui il fiore in cui è stata trasformata Clizia è di modesta evidenza, di colore chiaro, orlato di rosso-violaceo.

    Poi arrivò in Europa il girasole! Questo fiore di colore giallo, molto vistoso, fu battezzato da Linneo Helianthus annuus, che significa appunto “fiore del sole annuo”. Ama a tal punto la luce del sole da orientare la calatide sempre verso il punto di maggiore illuminazione.

    E’ originario dell’America Nord Occidentale, diffuso nell’America Meridionale, in particolare nel Perù, dove gli Incas lo mettevano in rapporto al loro dio, Inti, che aveva la sua raffigurazione nel sole, per cui anche i fiori di girasole erano adorati come immagini del dio. Infatti il girasole d’oro era un elemento del cerimoniale e i nobili che circondavano il re ne tenevano uno in mano. Anche le vergini del Sole, nelle cerimonie religiose, indossavano una corona d’oro che rappresentava questo fiore, che sfavillava inoltre nelle loro mani e sul loro seno. Gli Spagnoli non ne rimasero però abbagliati, tanto che i girasoli d’oro, come tante altre opere d’arte furono fusi e trasformati in lingotti. Il fiore, però, fu scoperto in Perù da Hernando Pizarro, che ne portò i semi in Spagna nel 1562 per farne dono a Filippo II. Sbocciarono così nei giardini di Madrid, suscitarono grande ammirazione e divennero presto popolari, anche per la grande facilità di coltivazione. A questo punto avvenne anche il trasferimento delle attribuzioni del mito dell’eliotropio all’elianto, di cui la più antica attestazione letteraria sembra l’ode Clizia di Ippolito Pindemonte:

    Dice la fama , e cantano i poeti

    Che una ninfa nel viso e nel cor bella,

    Cara dell’Oceàn prole e di Teti,

    Così piacesse al Sole, che per ella

    Spesso dal ciel, che ne stupì, scendea,

    Qual per Endimϊon feo la sorella.

    Nevi non tocche il nudo sen parea,

    Oro filato le increspate chiome,

    La rosa su le guance a lei nascea.

    Così la man, così avea gli occhi, come

    Colei gli avea, che le mie pene in gioco

    Volse gran tempo; ed era Clizia il nome.

    Ma più ancor distingueala un cor di foco,

    Per cui nell’alto amor, che al Sole porta,

    Parmi gelosa molto e accorta poco.

    Perché avesse con lui gioia sì corta,

    Ed egli abbandonassela, non dico:

    Ma fu molto gelosa, e poco accorta.

    Che farà, priva del suo dolce amico?

    Siede con bianca faccia e crin turbato

    D’un colle in cima solitario e aprico,

    Posto in non cale ogni esercizio usato,

    E l’aureo Dio, che per lo ciel vïaggia,

    Seguendo va col guardo innamorato.

    Pria che notte nel mar d’Atlante caggia,

    Fise le ciglia tien nell’Orïente,

    Per veder pur se il caro Dio l’irraggia.

    Sorto sul Mondo è già: lieta e ridente

    Si mostra la Natura in cui penétra:

    Solo è mesta colei che più lo sente.

    Quando dritti i suoi rai piovon da l’etra,

    Le par più irato, e a sostenerli chiede

    Ne’ frali occhi un vigor, che non impetra.

    Oh come bello in Occidente il vede!

    Senza sdegno le par: tanta dolcezza

    Nel volto imporporato allor gli siede!

    Ma già tutta sparì quella bellezza:

    Già più nera si fa nell’importuna

    Notte, onde è cinta, anco la sua tristezza.

    Pure in quell’ora ancor gelida e bruna,

    Di che pascere il duol giammai non pago,

    Trova nel volto della conscia Luna.

    Come colei, che del lontan suo Vago

    Con piacer legge le vergate carte,

    Ove di lui veder crede un’imago;

    Sì la Ninfa, che sa che dal Sol parte

    Quell’argenteo splendor, che in Cintia scorge,

    Pensa di pur vedere il Sole in parte.

    Di là per nove interi dì non sorge

    Quella infelice: non è mai che dorma;

    Bevanda o cibo al suo digiun non porge.

    Già più non serba, di quel ch’era, un’orma,

    Già in fior, che fosco ha il grembo e croceo il manto,

    Si ristringe il bel corpo e si trasforma.

    Fermasi alfin quel cor, che balzò tanto,

    E tra le fibre e i nuovi stami avvolto

    Il focoso sospir resta ed il pianto.

    Pur quel nòvo miracolo là vôlto

    Sempre si vede, ove il Sol d’alto brilla;

    Ogni dritto non viene ad Amor tolto,

    E nel fiore arde ancor qualche favilla.

    Il Pindemonte rinnova in certo qual modo il mito di Clizia, facendo del nuovo fiore del girasole l’oggetto della mitologica trasformazione. A questo punto l’eliotropo viene dimenticato e nasce il nuovo binomio Clizia-girasole, che tanta fortuna avrà nella poesia, soprattutto in Montale che mescolerà con inconsapevole disinvoltura i due riferimenti botanici.

    Clizia è infatti, nella poesia di Montale, uno dei señhal più importanti, che ormai, grazie ai contributi di numerosi studiosi, possiamo riferire con sicurezza a Irma Brandeis. Molti sono i testi poetici dedicati a questa donna, riconoscibile dal señhal o dalla presenza di elementi particolari a lei sicuramente ascrivibili, anche se fondamentale è La primavera hitleriana, in cui si trova in esergo la citazione Né quella ch’a veder lo sol si gira…tratta da un sonetto attribuito a Dante e indirizzato a Giovanni Quirini. Nel corpo del componimento abbiamo poi l’esplicito riferimento a gli eliotropi nati / dalle tue mani, che non sono più semplici amuleti, ma veri segni del bisogno di luce, che è ormai amore di Dio; troviamo inoltre il vocativo Clizia a cui si aggiunge tu / che il non mutato amor mutata serbi, traduzione da Ovidio (Meth. IV, 270). E’ da qui che Irma Brandeis diventa Clizia, per proseguire poi la sua funzione di donna angelicata e “Cristofora” in molti componimenti della Bufera, mentre nei testi a lei precedentemente dedicati, soprattutto nei numerosi Mottetti, non ha un’identificazione precisamente connotata.

    Resta però da vedere quale percezione, o per meglio dire quale consapevolezza botanica, Montale avesse nei confronti del fiore in cui Clizia era stata trasformata. Dai testi poetici che gli studiosi hanno posto in relazione a Irma Brandeis non si ricavano molti elementi interni che mettano in rapporto la donna con il fiore, mentre indizi determinanti sono desumibili dallo scritto autobiografico Due sciacalli al guinzaglio, in cui il poeta, alludendo al suo alter ego Mirco, dapprima dice “pubblicò, una serie di brevi poesie dedicate, anzi indirizzate per via aerea (ma solo sulle ali della fantasia), a una Clizia che viveva a circa tremila miglia di distanza da lui. Clizia non si chiamava affatto Clizia, e il suo originale si può trovare in un sonetto d’incerta paternità che Dante, o chi per lui, inviò a Giovanni Querini”, poi precisa “una Clizia portante il nome di colei che secondo il mito fu mutata in girasole” e aggiunge, riferendosi al poeta Mirco, “ritrovò se stesso in mortale pericolo ma già assistito, inconsapevolmente, dalla stella di Clizia, dall’ombrellino del suo girasole”. Montale ripropone poi precisi riferimenti a Clizia e al mito a lei connesso nelle riapparizioni di questa figura femminile nelle ultime raccolte, così in Quaderno di quattro anni con la lirica Due destini, in cui dice che Clizia fu consumata dal suo Dio / ch’era lei stessa e in Una lettera che non fu spedita, in cui allude a Clizia come a chi era e sarà folgorata dal sole. E’ chiaro quindi che Montale, in riferimento a Clizia, pensava alla solarità e alla vistosità del girasole e non all’elitropio. Sicuri elementi di collegamento con tra il girasole e Clizia compaiono nell’Elegia di Pico Farnese, lirica senz’altro da rapportare ad Irma Brandeis. Qui in una di quelle che Montale stesso definisce strofette, inserite tra parentesi nel testo poetico, in particolare nella terza, “in cui ci sono i dolciumi venduti sui sagrati dei santuari”, il poeta dice espressamente parole / che il seme del girasole / se brilla disperde, per poi proseguire con il tuo splendore è aperto, creando così un tessuto allusivo a Clizia in cui il nome del girasole si intreccia con lo splendore della solarità.

    Il girasole, d’altra parte, occupa indubbiamente un posto importante nell’ispirazione poetica di Montale, fin dai suoi primordi letterari, come ci testimonia il fatto che esso sia presente già nella lirica Riviere, una delle più antiche del poeta (1922), in un’espressione (sguardi di girasoli) che in certo qual modo umanizza il fiore. Ritorna poi in un’altra meno nota poesia degli Ossi di seppia, Ma dove cercare la tomba (1923) che si conclude con questi versi:

    un nulla, un girasole che si schiude

    ed intorno una danza di conigli…

    A questo fiore poi è interamente dedicata la celebre lirica degli Ossi di seppia, Portami il girasole ch’io lo trapianti (1923), in cui l’autore si rivolge ad un “tu” che non può essere identificato con la Brandeis, conosciuta solo un decennio più tardi:

    Portami il girasole ch’io lo trapianti

    nel mio terreno bruciato dal salino,

    e mostri tutto il giorno agli azzurri specchianti

    del cielo l’ansietà del suo volto giallino.

    Tendono alla chiarità le cose oscure,

    si esauriscono i corpi in un fluire

    di tinte: queste in musiche. Svanire

    è dunque la ventura delle venture.

    Portami tu la pianta che conduce

    dove sorgono le bionde trasparenze

    e vapora la vita quale essenza;

    portami il girasole impazzito di luce.

    In questo testo il girasole vive di una doppia identità, quasi sintesi di eliotropio e girasole: infatti dapprima appare pallido quasi evanescente per quell’ ansietà del suo volto giallino, che ci riporta ai caratteri dell’eliotropio (si potrebbe persino ipotizzare una memoria del Poliziano), per poi animarsi di tutta la sua vitale luminosità nel verso di chiusura, portami il girasole impazzito di luce.

    Il girasole è protagonista in cucina, perché Dai suoi semi si etrae l’olio di girasole, migliore crudo per condire che per friggere. Possiamo però anche utilizzare i semi tostati o i petali freschi per due gradevoli preparazioni, il Pane ai semi di girasole e l’Insalata ai petali di girasole.

    IN CUCINA

    Per quanto riguarda l’uso alimentare, possiamo ricordare che i semi di girasole vengono venduti come snack, purché tostati, specialmente in Cina e Stati Uniti, meno in Europa.

    Molto diffuso è l’olio estratto dai semi di girasole, usato comunemente per la preparazione delle fritture, ma anche per condire a crudo. Sia i semi che i petali dei fiori, poi, possono entrare come protagonisti in alcune preparazioni gastronomiche, piuttosto ricercate.

    Panini ai semi di girasole

    350gr farina 0; 100gr farina di segale; 50gr farina integrale; 325gr acqua tiepida; 10gr malto; 25gr lievito di birra; 150gr semi di girasole; 50gr olio di semi di girasole; 10gr di sale.

    Sulla spianatoia formate la fontana con le tre farine. Nella cavità al centro mettete 100gr di acqua in cui avrete sciolto il malto e il lievito. Impastate con cura. Aggiungete la restante acqua e il sale, poi lavorate ancora. Quando l’impasto sarà omogeneo, unite i semi di girasole e impastate ancora un po’. Formate una palla e lasciatela lievitare coperta per 20 minuti. Riprendete l’impasto e lavoratelo ancora qualche minuto. Lasciate lievitare per altri 40 minuti. Dividete l’impasto in pagnottelle da 100 gr e praticate sulla superficie di ciascuna un taglio a croce. Disponete i bocconcini su una teglia unta d’olio di girasole e lasciate lievitare ancora per 50 minuti. Portate poi il forno a 200° e infornate i panini per 25 minuti. Lasciate raffreddare prima di servire

    Insalata di petali di girasole

    Fiori di girasole, un paio di etti di valeriana fresca, mezzo lime, 2 cucchiai di olio di girasole

    Bicarbonato di sodio per lavare i fiori commestibili

    Lavate con acqua e bicarbonato la valeriana ed i petali dei girasoli, asciugateli delicatamente.

    In un’ insalatiera unite alla valeriana ed ai petali di girasole alcune fettine di lime tagliate molto sottile, condite con l’olio di girasole e servite aggiungendo petali di girasole per guarnizione.

    di Rosa Elisa Gangioia

    foto di Lorena

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